Contro il vento del revisionismo, per una pedagogia della Resistenza
di Alessandro Del Monte Teo
Segreteria PD Marche
La memoria è un terreno di lotta. Non vi è fondazione democratica che possa prescindere da un atto di rottura, da un momento originario che, nel recidere con il conflitto del passato, getti le basi per un ordine nuovo, più giusto, più umano. La Resistenza italiana, lungi dall’essere un evento residuale o marginale, fu – per riprendere le parole di Bobbio – il nostro "secondo Risorgimento", l’occasione, forse irripetibile, in cui la coscienza civile del popolo italiano si destò dal lungo torpore dell’assuefazione alla tirannide nazi-fascista.
Oggi, a distanza di ottant’anni, quella memoria si trova minacciata non tanto e solo dall’oblio debilitante del tempo – che tutto tende a dissolvere – quanto da un’opera deliberata, sistematica, ostinata di ridimensionamento, di manipolazione, di cancellazione. Un’altra occupazione, stavolta politico-culturale, tenta di riscrivere i codici simbolici della Repubblica nata dalla lotta partigiana. Il revisionismo storico si configura quindi non solo come mera disonestà intellettuale, ma come precisa strategia politica, come dispositivo ideologico di restaurazione.
Occorre rammentare che la Resistenza, quale atto fondativo, ebbe un carattere eminentemente politico. Non vi fu, in quegli anni cruenti, solo la legittima opposizione a una brutale invasione straniera o a una dittatura torva e sanguinaria: vi fu, innanzitutto, l’assunzione consapevole di una responsabilità storica da parte di individui e di una collettività che, pur nella diversità delle matrici di pensiero ed ideali, scelsero l’azione in nome di un’idea alta e intransigente di libertà.
Fu in quel crogiolo drammatico che si plasmò una rinnovatrice coscienza democratica, il germe di una società fondata non sul terrore, sul privilegio, sulla subordinazione o sul darwinismo sociale, ma sull’eguaglianza, sulla giustizia, sul primato del diritto. Momento etico-politico, di passaggio dal servaggio ad una democrazia costituzionale, dalla passività alla responsabilità collettiva.
Ma ogni ordine nuovo genera primo o poi altresì la propria contro-rivoluzione. L’alterazione della storia e del metodo storico, di cui oggi vediamo gli esiti più corrosivi, non nascono all’improvviso: sono un processo lento, carsico, che si nutre di ambiguità semantiche, di falsi equilibri, di un’idea malintesa di "riconciliazione nazionale" che, nel tentativo strumentale di “pacificare”, finisce per parificare – e dunque per confondere – la vittima e il carnefice, il partigiano e lo squadrista, la staffetta e il repubblichino, la Liberazione e la disfatta. Dal revisionismo al “rovescismo”, una deriva che non è solo accademica, ma politica e persino esistenziale: il rovescismo è l’arte perversa di capovolgere la storia, rendendo il fascismo "complesso" e la Resistenza "divisiva".
Perché, a ben vedere, dietro quelli che paiono talvolta sofismi si cela un disegno preciso: svuotare la Costituzione dei suoi presupposti antifascisti, disancorare l’idea di Patria dal suo legame con la Libertà, sostituire la verità storica con una comoda neutralità moralisteggiante. È l’egemonia culturale che, per dirla con Gramsci, si gioca non sul piano della forza bruta ma della penetrazione ideologica, della scuola, dei media, dei social, del senso comune.
Poiché la Resistenza è alla Costituzione ciò che il lievito è al pane: principio attivo, energia trasformativa. Non è data piena comprensione dell’articolato costituzionale senza riconoscere il nesso profondo che lo lega a quell’esperienza fondativa. Ogni articolo – dalla centralità del lavoro, all’uguaglianza sostanziale, al ripudio della guerra – è il precipitato di quella lotta, il distillato di un’esperienza che affonda le radici nella carne viva del popolo.
La Resistenza non può essere neutralizzata: o è riconosciuta come scelta di campo, come atto di rottura con il passato fascista, oppure è tradita!
La storica Michela Ponzani, nella sua opera “Processo alla Resistenza”, ha lucidamente del resto mostrato come la nostra epoca produca un oblio volontario, anestetizzato, in cui la disinformazione storica non è più ignoranza, ma rimozione attiva: l’egemonia del disimpegno, quella che già Halbwachs, assassinato dal nazismo a Buchenwald, definiva sociologia dell’oblio.
Allora, deposte grazie al cielo le armi, cosa vuol significare resistere oggi, se non ereditare dai partigiani lo spirito assoluto del loro impegno, del loro totale offrirsi: combattere contro l’ingiustizia commessa contro chiunque, dignità di fronte al potere, disciplina e onore nelle istituzioni, impegno civile come militanza quotidiana!
Poiché il fascismo - che è anzitutto una belluina prassi, più che una dottrina - può tornare sotto altre vesti, con linguaggi apparentemente democratici, ma con la stessa pulsione: l’intolleranza, il culto strumentale della tradizione, il populismo autoritario.
Difendere la Resistenza, allora, è difendere la libertà nel presente. È lottare per il salario degno, per il diritto universale alla salute, per la Pace, per l’accoglienza, per l’antirazzismo, per l’ambiente, per i diritti delle donne, per il domani delle giovani generazioni. La Resistenza continua ogni volta che si combatte l’ingiustizia!
La democrazia non è una meta raggiunta, ma un cammino ininterrotto, da percorrere quotidianamente. La memoria è campo di battaglia e il revisionismo è l'offensiva più insidiosa.
Difendere la Resistenza perciò non significa solo ricordare il passato, celebrarne il punto d’arrivo, ma costruire futuro. Non è soltanto pietà per i morti, ma responsabilità verso i vivi.
Nel tempo dell’ambiguità, serve chiarezza. Nel tempo del cinismo, serve passione. E nel tempo dell’oblio, serve memoria. Viva, critica, militante.
Viva il 25 Aprile sempre!
